Criptovalute e fisco: come funziona la tassazione della moneta virtuale
Quali sono le regole giuridiche che disciplinano le monete virtuali e cosa deve essere indicato in fase di dichiarazione dei redditi.
Le criptovalute, ovvero le monete virtuali, sono in genere utilizzate per la creazione di portafogli digitali, con l’obiettivo di investire nel tempo, per essere scambiate o vendute nel breve periodo a scopi speculativi o adoperate per fare acquisti online.
Il tema fiscalità relativo alle criptovalute non è semplicissimo, nella misura in cui la legislazione si è mossa in ritardo rispetto ai soggetti operanti nel mercato delle monete virtuali. Vediamo di seguito quali sono le norme che in Italia regolano il mondo delle criptovalute dal punto di vista civilistico e fiscale.
Criptovalute: le tasse sulla moneta virtuale
La situazione fiscale inerente la moneta virtuale cambia in relazione ai diversi Paesi. Negli Stati Uniti, per esempio, le tasse sulle criptovalute variano a seconda che il guadagno in Bitcoin sia stato ottenuto da un’azienda o da una persona fisica. Il quadro normativo è chiaro e ben delineato anche in altri Stati, nei quali è già previsto il pagamento delle tasse sui profitti derivanti dalle criptovalute, ovvero:
- nel Regno Unito;
- in Australia;
- in Giappone e a Singapore;
- in Svizzera, dove è stata addirittura ipotizzata la possibilità di pagare le tasse direttamente in Bitcoin.
Il quadro fiscale relativo alle criptovalute è stato normato anche in Russia e Polonia, e i Governi di India e Corea del Sud sono alle prese con la creazione di una regolamentazione in materia. I Paesi che godono delle migliori condizioni in tema di criptovalute sono:
- il Portogallo, nel quale non sono previste tasse per le persone fisiche che ottengono profitti dalle criptovalute;
- l’Olanda, la Slovenia e la Danimarca.
Criptovalute: la normativa fiscale in Italia
In questo momento, non esiste una normativa ad hoc sulle criptovalute in Italia: si fa pertanto riferimento alla Risoluzione n. 72/E/2016, documento nel quale le monete virtuali vengono assimilate ai fini fiscali alle valute estere tradizionali. Quello che bisogna considerare ai fini della dichiarazione dei redditi, è l’obiettivo in base al quale chi utilizza le criptovalute sta operando.
A tal proposito, bisogna fare riferimento al DPR n. 917/86, nel quale le plusvalenze che si realizzano con la cessione a titolo oneroso di valute estere sono rilevanti nel caso in cui siano:
- oggetto di cessione a termine;
- derivanti da conti correnti o da depositi.
In base a quanto detto, emerge che:
- se le criptovalute vengono utilizzate unicamente come mezzo di pagamento, non sono rilevanti dal punto di vista reddituale e non possono essere tassate;
- al contrario, se le criptovalute vengono utilizzate per effettuare scambi o compravendite a scopo speculativo, i profitti devono essere dichiarati e tassati.
Criptovalute e imponibilità
L’attività di trading dalla quale derivano delle plusvalenze viene tassata con aliquota al 26%. Il comma 1-ter dell’articolo 67 del DPR n. 917/85 esclude l’imponibilità nei casi in cui “la giacenza complessiva di tutti i depositi e conti correnti in valuta non sia superiore a 51.645,69 euro per almeno sette giorni lavorativi continui”.
Per effettuare il calcolo delle plusvalenze, il trader deve utilizzare le certificazioni che vengono rilasciate dagli intermediari, ovvero dalle piattaforme di trading che utilizza in quanto, ai fini della dichiarazione dei redditi o di eventuali controlli fiscali, non sono valide le autocertificazioni.
Questo passaggio è caratterizzato attualmente dalle maggiori lacune, in quanto:
- le documentazioni relative alla propria attività di trading non possono essere autoprodotte;
- al contempo, dovrebbero essere quanto più complete possibile;
- dovrebbero essere rilasciate dagli intermediari, ma questa pratica si verifica molto raramente nel concreto;
- da questo gap relativo alla mancanza di documentazioni relative ai guadagni ottenuti attraverso il trading, potrebbero derivare problemi di tipo fiscale, nel caso di controlli sulla propria attività.
Cos’è il regime del risparmio amministrato
La gestione fiscale delle criptovalute potrebbe essere in qualche modo semplificata attraverso il regime del risparmio amministrato, il quale consiste in un regime di tassazione che viene applicato dall’intermediario, sulla base del D.lgs. n. 461/97.
L’intermediario deve possedere alcuni requisiti, ovvero:
- deve essere identificato in Italia e operare tramite una sede italiana;
- deve avere un’organizzazione stabile in Italia.
Con questo regime la tassazione è ugualmente pari al 26%:
- la differenza fondamentale consiste nel fatto che viene trattenuta direttamente dalla società di trading, che la versa all’Erario;
- in questo modo, il contribuente non sarà tenuto a inserire “redditi di diversa natura finanziaria” in fase di dichiarazione dei redditi.
Questo sistema sarebbe una soluzione ideale se non fosse che non ci sono al momento intermediari che gestiscono criptovalute con sede in Italia, quindi nella pratica il regime del risparmio amministrato non può essere applicato. Un altro dei tanti paradossi all’interno di un sistema che necessita, al più presto, di una vera e propria regolamentazione.
Criptovalute e dichiarazione dei redditi
I redditi prodotti da un contribuente attraverso la cessione a titolo oneroso di criptovalute devono essere indicati nel quadro RT della dichiarazione dei redditi, considerando l’imposta sostitutiva del 26%. Le criptovalute non vengono tassate con l’IVAFE, che è un’imposta applicabile unicamente ai depositi e ai conti correnti che hanno natura bancaria, relativi alle attività finanziarie detenute all’estero.
Gli importi inseriti nella dichiarazione dei redditi devono essere indicati in euro: come si fa a calcolare il corretto tasso di cambio delle criptovalute? Abbiamo detto che l’Agenzia delle Entrate ha equiparato le valute virtuali alle valute estere. Il problema consiste nel fatto che:
- nel caso della valuta estera, la Banca d’Italia rilascia un documento relativo al tasso di cambio ufficiale su base giornaliera;
- questo documento non esiste nel caso delle criptovalute e non è neanche facile individuare il giusto tasso di cambio considerato che sono soggette a grande volatilità.
Come regola generale:
- viene preso in considerazione il tasso di cambio utilizzato per la maggior parte delle operazioni o il valore di mercato delle attività;
- viene utilizzato il tasso di cambio rilevato alla data di acquisto della moneta virtuale sul sito di trading: in questo caso viene applicato il cambio medio del mese di acquisto.
L’articolo 4 del Dl 167/90 prevede poi che le persone fisiche, gli enti non commerciali e le società semplici debbano compilare il Quadro RW del modello dichiarativo, che è relativo al monitoraggio fiscale, in caso di “investimenti all’estero ovvero di attività estere di natura finanziaria suscettibili di produrre redditi imponibili in Italia”. Dal 2018, tra le istruzioni al quadro RW, è stata infatti inclusa quella delle valute virtuali tra le attività che devono essere indicate al suo interno.
Criptovalute e fisco: la situazione dei traders
L’attuale situazione fiscale per i soggetti impegnati in attività di trading online non è stata definita del tutto e appare in molti casi lacunosa e contraddittoria. I soggetti che fanno trading online in Italia sono tenuti a dichiarare quanto guadagnano in quanto la loro attività con l’utilizzo di valuta virtuale viene considerata, dall’Agenzia delle entrate, assimilabile ai guadagni ottenuti con valuta estera.
La contraddizione principale consiste nel fatto che in caso di controllo da parte del Fisco, i traders devono presentare la documentazione che hanno ottenuto direttamente dalla piattaforma di trading utilizzata per speculare. Nella pratica:
- gli intermediari forniscono raramente una documentazione completa sulle attività di trading online;
- al tempo stesso, il trader non può fare ricorso all’autocertificazione, in quanto non viene accettata ai fini fiscali.
Questa situazione crea un controsenso per il quale il trader più onesto, che abbia tutte le intenzioni di dichiarare quanto guadagnato, nel caso in cui finisse nel mirino del Fisco potrebbe non passarla liscia perché non avrebbe gli strumenti necessari per dichiarare ufficialmente i suoi profitti. Quello che manca, dunque, in Italia è un quadro normativo più definitivo, che permetta di colmare i vuoti esistenti in questo momento.
Criptovalute e fisco: la situazione dei miners
Ancor più intricata è la situazione relativa alle attività di mining, ovvero quelle attraverso le quali è possibile ottenere Bitcoin dalla rete, per la quale non esiste un codice ATECO. Nel concreto:
- un miners in Italia non ha la possibilità di poter aprire la partita IVA come miner;
- non esistono neanche attività assimilabili al mining, con le quali scegliere un altro codice ATECO.
Per questo motivo, le strade per i miners nel nostro Paese sono fondamentalmente due:
- realizzare profitti che non superino i 5.000 euro all’anno;
- operare nell’illegalità, nel caso in cui riuscissero a ottenere grandi guadagni con la loro attività online.
Criptovalute – Domande frequenti
Le attività di trading online vengono tassate con un’aliquota al 26%.
L’agenzia delle Entrate assimila la moneta virtuale a una valuta estera, ma sulle criptovalute non viene applicata l’IVAFE, che è l’imposta sul valore delle attività finanziarie detenute all’estero.
Le aziende che operano utilizzando i Bitcoin vengono tassate con le stesse regole che sarebbero applicate nel caso in cui operassero in euro.
Le imposte sulle criptovalute devono essere pagate nel momento in cui viene superata una giacenza di 51.645,69 euro per almeno sette giorni lavorativi continui.